Con sentenza 16 maggio 2019, n. 13246, le Sezioni Unite della Cassazione hanno reso importanti considerazioni in merito al rapporto tra fatto penalmente illecito del pubblico dipendente e risarcimento del danno cagionato al privato.
Lo spunto che ha originato la sentenza era il comportamento ascrivibile a peculato, posto in essere da un cancelliere che si era appropriato di una somma di danaro spettante a terzi, in evidente e cosciente violazione dei suoi doveri di ufficio.
La sentenza in questione è interessante perché analizza le due diverse correnti di pensiero giurisprudenziale afferenti al caso in questione. Secondo il filone “classico”, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente deve sussistere, oltre al nesso di causalità, anche la riferibilità all’Amministrazione del comportamento stesso. Secondo questa tesi, per potersi chiamare l’amministrazione a rispondere del fatto penalmente illecito del dipendente, l’attività posta in essere da questi deve manifestarsi come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico (magari esercitata con abuso di potere, ma sempre indirizzata al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto). Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca per un fine strettamente personale, del tutto estraneo o perfino contrario agli scopi della p.a. alla quale fa capo. Anche la giustizia amministrativa propende per tale tesi, osservandosi come essa ritiene interrotta l’imputazione giuridica dell’attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600) o comunque allorché il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell’ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell’Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166.
Secondo altro filone interpretativo, più recente e meno consolidato, è possibile riconoscere la responsabilità dell’ente pubblico anche nei casi in cui il fatto illecito origini da un apparente adempimento delle funzioni pubbliche che si sostanzi in un “non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni”; il tutto, in applicazione del criterio previsto dall’art. 2049 cod. civ..
La risposta della Suprema Corte rappresenta la sintesi tra le due tesi. Secondo la Cassazione, se l’illecito è riferito direttamente all’Ente, questi ne risponderà altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell’art. 2043 cod. civ.. Tuttavia, accanto a questa ipotesi nulla vieta di configurare la responsabilità civile “indiretta” (e solidale) dell’Ente, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza dei principi discendenti dall’art. 2049 cod. civ., prescindendosi da ogni colpa del datore di lavoro pubblico. In definitiva, lo Stato o l’ente pubblico risponderanno del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici, a prescindere dal fine soggettivo dell’agente, purchè sussista tale correlazione di “oggettiva non improbabilità” dello sviamento dalle normali regole di azione.
Per concludere, secondo la Suprema Corte “lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi -non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo”.