Distanze minime fra edifici e pianificazione urbanistica

Una recente sentenza del Consiglio di Stato prende posizione sul caso di discrepanza fra la pianificazione territoriale effettuata dal Comune e la disciplina statale sulle distanze minime fra edifici.

I giudici amministrativi hanno sottolineato come le previsioni di cui all’ art. 9, d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 — riguardanti la distanza minima da osservarsi tra edifici — essendo funzionali a garantire non tanto la riservatezza, quanto piuttosto l’igiene e la salubrità dei luoghi e la formazione di intercapedini dannose, devono considerarsi assolutamente inderogabili da parte dei Comuni, che si devono attenere ad esse in sede di formazione e revisione degli strumenti urbanistici; inoltre, traendo le norme del succitato d.m. n. 1444 del 1968 la propria efficacia dall’ art. 41 quinquies comma 8, l.17 agosto 1942, n. 1150 — in tale parte non abrogato dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 — le relative previsioni devono considerarsi avere una efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire alle eventuali norme di piano regolatore ad esse non conformi; pertanto, ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. ad es.. Consiglio di Stato, sez. IV , 30/10/2017 , n. 4992).

Conseguentemente, a fronte di una difformità, dal titolo rilasciato, in violazione delle distanze, il conseguente abuso va sanzionato, senza che possa in contrario valere un eventuale accordo fra privati.

Né un titolo edilizio sopravvenuto, rispetto all’originaria prima costruzione, può tacitamente legittimare una violazione delle distanze stesse.

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